Le osservazioni del Procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita sulla riforma dell’ordinamento penitenziario

Senato della Repubblica

Commissione Giustizia

Intervento del dott. Sebastiano Ardita
per l’audizione fissata in data 6 febbraio 2017
avente ad oggetto

“questioni sottese alle modifiche apportate all’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario in tema di concessione dei benefici ai mafiosi e ai recidivi, sull’impatto delle innovazioni proposte per l’attività della magistratura di sorveglianza, sugli effetti della riforma sull’organizzazione e sul trattamento penitenziario, sul regime delle perquisizioni.”

Con riferimento ai temi stabiliti dalla Commissione come oggetto dell’audizione va rilevato come essi attengano a profili tutti di rilevante interesse e appaiano meritevoli di separata trattazione distinguendo i relativi argomenti.

Va premesso come non vi sia dubbio che l’intento perseguito con la riforma vada rinvenuto nell’impegno alla realizzazione di regole che assicurino civiltà della pena e condizioni migliori di vita per i detenuti.
Tale modello va però sempre confrontato con le caratteristiche della vita detentiva, la struttura e le finalità del trattamento penitenziario (secondo il modello di rieducazione ispirato dalla Costituzione), il ruolo e le condizioni di lavoro degli operatori penitenziari; il mantenimento dei livelli di sicurezza e prevenzione entro limiti che garantiscano la normale funzione della pena.

Ma procediamo con ordine

  1. A) art. 4bis O.P. Modifiche apportate in tema di concessione dei benefici ai mafiosi e ai recidivi (a parziale superamento dei divieti imposti dall’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario)
  2. Introduzione dell-art. 4ter, Norma che potrebbe incidere sui presupposti applicativi del 41bis ed avere come conseguenza all’annullamento di diversi decreti. (Violazione della delega).

La disposizione che presenta maggiori problemi interpretativi e potrebbe dar luogo a “pericolose” conseguenze e’ rappresentata dall’art. 7 del decreto che introduce l’art. 4-ter dell’ordinamento penitenziario, con la quale si dispone che “la pena o frazione di pena relativa ad uno dei reati indicati nell’art. 4bis si considera separatamente ed espiata per prima, quando ne derivano effetti favorevoli al condannato.

Tale disposizione che prevede per legge il cd “scioglimento del cumulo”, per la genericita’ della sua formulazione e per la sua collocazione fuori dal 4bis (ossia all’esterno della norma che specificamente prevede il divieto di accesso ai benefici) sembrerebbe potersi applicare a tutte le possibili situazioni piu’ favorevoli – non solo ai benefici penitenziari – e dunque potrebbe incidere sui presupposti di applicazione dell’articolo 41bis, trasformandosi in un possibile varco attraverso il quale una abbondante fetta di detenuti di mafia uscirebbero dal regime speciale.

In effetti nella parte finale del comma 2 dell’art. 41bis e’ contenuta una previsione opposta che stabilisce “In caso di unificazione di pene concorrenti, la sospensione ( delle regole di trattamento n.d.r.) puo’ essere disposta anche quando sia stata espiata la parte di pena relativa ai del;itti indicati nell’art. 4bis”.

Tale ultima norma – letteralmente osservata – non prende in esame l’operazione “tecnica” di scioglimento del cumulo ai fini del mantenimento dei presupposti per il 41bis, ma definisce “possibile” la applicazione del regime speciale nel caso in cui il detenuto abbia gia’ espiato la porzione di pena ostativa. La nuova norma sancendo invece il principio della validita’ degli effetti piu’ favorevoli per il condannato, travolgerebbe dunque questa possibilità.

Ci sono più motivi per temere che questa disposizione possa applicarsi anche ai detenuti sottoposti allo speciale regime:

1 Il primo e’ la ratio legis. Lo scioglimento del cumulo si applica pacificamente ai benefici, occorre dunque chiedersi il perche’ si senta il bisogno di esplicitare in una norma gli effetti della sua applicazione, se non evidentemente per estenderne il campo.

2 Dal momento che l’unico possibile campo di estensione della norma e’il regime 41bis la nuova norma oltre che successiva, non appare dotata di caratteristiche di generalita’ tali da consentire alla disposizione sul 41bis di resistere quale norma speciale. La nuova norma dunque appare come anch’essa speciale, ed idonea a superare il disposto della precedente disposizione.

  1. Se il Legislatore avesse voluto collegare la disposizione sullo scioglimento del cumulo ai benefici, l’avrebbe mantenuta all’interno dell’art. 4bis, che ha ad oggetto il divieto dei benefici. L’ha invece collocata in un articolo a parte.
  2. Nella relazione non si fa alcun cenno alla questione. Si dice in modo alquanto generico che la norma intende “circoscrivere le preclusioni legate alla pena per i delitti di cui all’art. 4bis”, senza per nulla legare la sua efficacia ai “benefici penitenziari”; ne’ si fa cenno alla esclusione del 41bis dalla portata della norma.

Puo’ percio’ tranquillamente affermarsi che essa – nonostante l’art. 85 della legge delega – e’ in sè, una espressione normativa astrattamente idonea ad incidere sul 41bis, o comunque a prestarsi ad una possibile estensione, proprio perché la applicazione giurisprudenziale dello scioglimento del cumulo ai benefici penitenziari e’ oramai giurisprudenza consolidata e insuperabile (dalla Sez Un Ronga in poi).

V’e’ da ricordare come gia’ nel 2002 – all’indomani della introduzione della prima riforma del 41bis – alcuni tribunali di sorveglianza operarono lo scioglimento del cumulo (istituto normalmente applicato ai benefici penitenziari), anche rispetto ai presupposti di applicazione del 41bis. Ne consegui’ una piccola frana che porto’ complessivamente – per questa e per altre ragioni interpretative – all’annullamento di oltre 70 decreti di 41bis ( ma v’e’ da dire che non tutti i tribunali applicarono lo scioglimento del cumulo ai 41bis, perche’ alcuni di essi si rifiutarono).

Il DAP sollevò la questione e ne segui’ una presa di posizione della direzione nazionale antimafia prima e della Commissione antimafia (XIV Legislatura) poi, che rilevarono come lo scioglimento del cumulo non potesse applicarsi agli strumenti di prevenzione come per l’appunto il 41bis. Le impugnazioni dei procuratori generali provocarono poi una giurisprudenza della Cassazione che consolidandosi in piu’ pronunce ebbe ad escluderne l’applicazione con riferimento ai presupposti applicativi del regime 41bis. Successivamente il Legislatore del 2009 introdusse la modifica sopra richiamata. Sul punto allego un appunto del 2002 inviato dal DAP ai procuratori distrettuali ed al procuratore nazionale antimafia che riassume la questione.

Oggi questa norma rischierebbe di superare la disposizione del 2009 che aveva recepito la giurisprudenza della Cassazione sulla inapplicabilita’ dello scioglimento del cumulo ai 41bis, finendo per incidere pesantemente sui presupposti di applicazione del regime speciale in palese violazione della delega.

  1. Modifiche al c.1 e comma 1ter

In ordine all’alleggerimento del 4bis seguendo lo schema della relazione si rileva che le ipotesi attualmente previste dal comma 1 dell’articolo 4-bis e non incluse nel suo nuovo disposto sono da riportare nel comma 1-ter, così da destinarle a un regime “fondato non su rigidi automatismi, ma su vagli più penetranti della magistratura, tesi a verificare, anche con l’obbligatorio ausilio delle forze dell’ordine, che non vi siano «elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva».

Sul punto c’è poco da dire giacché il 4bis aveva in effetti subito un’allargamento che ne aveva snaturato la funzione di norma destinata alla prevenzione nei riguardi dei soggetti appartenenti alla criminalità organizzata mafiosa e terroristica. Il 4bis 1 comma viene così riservato alla criminalità organizzata.

  1. Soppressione del comma 3bis (comunicazioni del Procuratore nazionale e dei procuratori distrettuali circa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata)

Anche la soppressione del comma 3-bis dell’articolo 4-bis ord. pen. – che attualmente prevede la comunicazione del procuratore nazionale e del procuratore distrettuale, circa l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata – appare come una grave involuzione nel collegamento degli strumenti di conoscenza istituzionale a fini di prevenzione antimafia .

Tale disposizione della quale non si comprende la ratio rischia indietro nella strategia di contrasto alle organizzazioni. La norma è finalizzata a monitorare gli eventuali rapporti dei condannati per delitti di criminalità organizzata con l’ambiente esterno, con la conseguenza di escludere l’ammissione ai benefici per coloro che abbiano interagito in modo diretto o indiretto ( anche attraverso i familiari più stretti) con le organizzazioni operanti fuori dal carcere.

Sul punto nella relazione illustrativa si osserva che la lett. e) della delega, nell’invocare l’eliminazione degli automatismi e delle preclusioni …intende ricollocare “al centro” di tali scelte l’autonomia decisionale della giurisdizione di sorveglianza.

Quindi secondo la relazione la maggiore autonomia della Sorveglianza sarebbe garantita facendo a meno di un elemento di conoscenza determinante quale l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata.

Si tratta di una affermazione che non sembra trovare fondamento, giacché è di tutta evidenza che la comunicazione della “attualità dei collegamenti”, non si esaurisce nella pronuncia di una formula, ma nella allegazione di concreti elementi su cui si basa la affermazione della permanenza dei collegamenti che il magistrato ha il diritto dovere di controllare.

Ma ancor più sorprende la relazione laddove conclude sul punto affermando che La soppressione del comma 3-bis, quindi, risponde a una precisa esigenza: eliminare un automatismo preclusivo   a una “informativa” attestante l’attualità di collegamenti con la criminalità, non filtrata, fra l’altro, da alcuna verifica giurisdizionale. Se così è il Legislatore delegato [1] sembrerebbe aver attribuito efficacia preclusiva all’atto formale della comunicazione e non al contenuto della stessa, che invece – sulla scorta della prassi accolta dalla giurisprudenza – è soggetto al vaglio del giudice e pertanto non ha di per sé nessun effetto automaticamente preclusivo. In questo senso si è pronunciata la Cassazione ( Sez. 1 N. 3133 Anno 2015), che ha affermato il diritto dovere del magistrato di sorveglianza di valutare la congruità della comunicazione del Procuratore circa la permanenza dei collegamenti. Si tratterebbe dunque di una riforma giustificata da un presupposto smentito dalla giurisprudenza.

La sentenza richiamata ribadisce infatti che l’effetto preclusivo va ricondotto al fatto storico del “collegamento”, elemento che è posto al vaglio del giudice ed il cui valore prognostico (rispetto al pericolo di reiterazione criminosa) può essere valutato unitamente ad altri elementi che sono a sua disposizione

Peraltro l’accertamento della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata, costituisce, nel sistema dell’ordinamento penitenziario, in via generale condizione necessaria, sia pure non sufficiente, per valutare il venir meno della pericolosità sociale (C. cost. n. 273 del 2001).

Questa modifica, pertanto, al di là delle sue conseguenze concrete, contraddice una linea di impostazione legislativa fondata sulla comunicazione tra mondo penitenziario e prevenzione antimafia, (che ha dato frutti rilevanti ponendo in luce come il carcere sia divenuto da tempo terminale e luogo di collegamento strategico con le organizzazioni criminali ) ed anche anni di approfondimento scientifico sulla materia della criminalità organizzata intesa non come reato in sé come fenomeno produttivo di altri reati.

Sul punto vale appena la pena di accennare come la “teoria dell’organizzazione” applicata alla associazione mafiosa, tende a far ritenere la stessa non solo come reato ma come macchina produttrice di reati. In questo contesto i ruoli personali divengono facilmente intercambiabili e lo strumento principale di funzionamento rimangono i collegamenti. Quella norma che poneva attenzione alla capacità di collegamento mafioso – e che al tempo stesso metteva in campo strumenti di collegamento istituzionale tra DNA DAP e Sorveglianza – rappresentava una importante espressione di un metodo di lavoro.

Può dunque concludersi che ciò che verrebbe meno per legge non è solo un patrimonio istruttorio rilevante ai fini delle decisioni del giudice, ma una modalità di contrasto fondato sui collegamenti istituzionali, unanimemente riconosciuta come indispensabile per approfondire e disarticolare i collegamenti delle associazioni mafiose. Si tratta di una grave involuzione nell’approccio con la criminalità organizzata e di una marcia indietro nell’approccio scientifico con il fenomeno, che aveva ispirato la norma che si intende abrogare. La scelta del Legislatore appare perciò spingersi senz’altro oltre la delega, che limita l’intervento delegato agli automatismi.

  1. modifica dell’art. 47 ter comma 1 lett. a) e b) concernenti le madri di prole di età inferiore ad anni 10 o con disabilità grave

Questa modifica in realtà muove dal contenuto delle sentenze della Corte Cost. nn. 239/2014 e 76/2017.

Con le predette sentenze la Corte aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 4bis comma 1, della legge n. 354 del 1975 nella parte in cui non escludeva dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare speciale prevista dall’art. 47quinquies della stessa legge.La dichiarazione di illegittimità costituzionale veniva estesa, in via consequenziale, anche alla misura della detenzione domiciliare ordinaria prevista dall’art. 47 ter comma 1, lettere a) e b ), della legge di ordinamento penitenziario, “ per evitare che una misura avente finalità identiche alla detenzione domiciliare speciale, ma riservata a soggetti che debbono espiare pene meno elevate, resti irragionevolmente soggetta ad un trattamento deteriore in parte qua”. In tutte queste ipotesi, secondo la Corte, la concessione della misura doveva comunque rimanere “subordinata alla verifica della insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti: condizione, come detto, non enunciata in modo esplicito dal citato art 47 ter ma che deve comunque ricorrere, secondo la giurisprudenza, stante l’evidenziata ratio comune delle misure alternative alla detenzione”

Con riferimento alla soluzione adottata nel decreto – che consiste nel mero abbattimento dello sbarramento ai beneficio che prima era previsto per coloro che rispondono dei delitti del 4bis – si può formulare qualche osservazione.

– Innanzitutto le sentenze della Corte – incentrate sull’impatto degli automatismi rispetto a soggetti diversi, quali i minori interessati all’accudimento – censuravano l’eccessiva eterogeneità del 4bis che “contiene reati di diseguale gravita’ ” rilevando come fosse particolarmente delicata la questione tutte le volte che il bilanciamento di interessi – che sta a fondamento della misura penitenziaria – potesse includere per l’appunto soggetti estranei. La Corte non negava questa possibilità di bilanciamento, ma pretendeva che operasse in modo più rigoroso. Si poteva intervenire selezionando all’interno del 4bis e trasformando l’automatismo in ipotesi eccezionale anziché limitarsi a far cadere lo sbarramento.

Vero è infatti che la “ratio comune” delle misure alternative alla detenzione è l’insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti, ma è pur vero che in materia di criminalità mafiosa la assenza di questo pericolo non può essere semplicemente desunta dal comportamento intramurario ( la buona condotta, partecipazione alle attività in comune). Essa è la risultante di condizioni più complesse che devono tenere conto anche delle caratteristiche e della operatività del gruppo criminale di affiliazione. Nella assenza di specificazioni normative vi è il rischio di burocratizzare il giudizio sulla pericolosità criminale di soggetti operanti in ambito mafioso, ancorandolo esclusivamente ad elementi di osservazione intramurali.

  • Inoltre le pronunce della Consulta sono centrate sulle detenute madri giacché affrontano in modo diretto la questione del rapporto madre-figlio; si è deciso invece di estenderle questa possibilità anche ai padri.

E così i detenuti di mafia uomini, con pena residua fino a 4 anni,  vedrebbero la concreta possibilità di essere ammessi al beneficio qualora abbiano prole sotto i dieci anni o affetta da disabilità e la madre sia morta o assolutamente impossibilitata ad occuparsene.

La norma pone seri problemi di ordine pubblico, nella misura in cui consente ad esponenti di mafia, anche pericolosi, di ottenere la possibilità di uscita dal carcere al determinarsi di condizioni impeditive del ruolo della madre. Si tratta di una estensione che non si fa carico delle preoccupazioni della Corte cita la necessità di operare il predetto bilanciamento tra esigenze di difesa sociale (prevenzione) e specifiche necessità di assistenza e cura dei minori. Essa sembra non tenere in alcuna considerazione le dinamiche della criminalità mafiosa anche rispetto alla dimensione familiare.

Le pronunce della Corte muovono infatti dalla necessità di garantire continuità nel rapporto col genitore con concreto riferimento a casi nei quali i figli minori erano già stati accuditi dalla madre fino a tre anni (in fruizione del beneficio nel primo caso e all’interno del carcere nel secondo).

Mentre la estensione ai padri, nei termini ampi previsti dalla legge – e dunque prescindendo del tutto dal pregresso rapporto e dai danni derivanti dall’eventuale distacco – , sembra esprimere una singolare linea di tendenza legislativa ad affidare i figli al genitore inserito di associazioni mafiose, ; opzione in netto contrasto con un vasto movimento di pensiero che vorrebbe ritenere tale appartenenza un elemento per escludere il ruolo di responsabilità genitoriale (va ricordata per tutte la recentissima delibera sul punto della VI commissione del CSM approvata dal plenum lo scorso ottobre).

Tale riforma potrebbe prestarsi alla soddisfazione dell’interesse del padre, rispetto al quale il minore diventerebbe strumento, in ottica esattamente capovolta rispetto a quanto sancito dalla Corte. Si tratta dunque di una scelta autonoma, rischiosa e non riconducibile alle pronunce richiamate.

Il rischio dell’effetto combinato delle due modifiche è poi enorme. I detenuti mafiosi anche   di spicco, con figli minori degli anni 10 – non importa se se ne siano disinteressati fino a quel momento – qualora la madre dovesse improvvisamente morire, trovarsi impossibilitata ad accudirli o semplicemente scomparire, mantenendo una buona condotta intramuraria ( come tutti i boss di un certo rango) potrebbero facilmente vedersi aperte le porte del carcere, giacché il PNA – con l’abolizione del comma 3bis – non comunicherà più gli elementi (concreti) di collegamento con la criminalità organizzata che potrebbero porsi da ostacolo alla concessione del beneficio.

  1. B) Impatto della riforma sull’attività della magistratura di sorveglianza e sulla attività preparatoria dell’area trattamento degli istituti penitenziari.

La risposta a questa domanda dovrebbe essere affidata ai magistrati di sorveglianza. Estendendo il quesito agli effetti di impatto anche sulla area trattamento si può provare ad immaginare alcune conseguenze complessive. Senza scendere nel merito può facilmente osservarsi come la caduta tout court delle preclusioni possa aprire la strada ad una moltiplicazione delle istanze e dunque ad una crescita esponenziale non solo dei ruoli giudiziari, ma anche del lavoro delle equipe trattamentali ed in particolare e dei funzionari .

Tale probabile crescita dovuta alla caduta del filtro porta con sé due conseguenze: la prima è una inevitabile dispersione di risorse amministrative e giudiziarie ( obbligo di istruttoria e di motivazione) su istanze che potrebbero risultare del tutto prive di requisiti. Questa possibile dilatazione andrebbe infatti a tutto danno di casi meritevoli di attenzione ma che tuttavia non sono affatto semplici ( ve ne sono molti), poiché relativi a situazioni nelle quali è necessario compiere attente verifiche circa i progressi del percorso intramurale e la prognosi di non reiterazione criminosa del detenuto in trattamento. Questo potrà comportare una riduzione del tempo disponibile alla trattazione di tali casi e potrebbe avere come “reazione difensiva” – rispetto all’accresciuto carico di lavoro ed alle enormi responsabilità connesse alle procedure di concessione delle misure alternative –   la burocratizzazione dell’attività amministrativa che si pone a fondamento della loro trattazione. A organici invariati, l’ampliamento del lavoro istruttorio/preparatorio ( i cd compiti di segreteria tecnica, che accompagnano l’osservazione e il piano individualizzato, nonché gli atti finali finalizzati a definire le richieste di benefici ) potrebbe provocare effetti di ritorno a danno quei detenuti che – pur partendo da situazioni difficili – realmente potrebbero sperare nell’accoglimento delle proprie istanze.

La seconda conseguenza potrebbe legarsi alla continua reiterazione di istanze – a seguito di rigetti – da parte dei medesimi soggetti dalla spiccata pericolosità criminale. Ciò potrebbe comportare forti sovraesposizioni dei magistrati di sorveglianza ( che già in passato si sono registrate ed hanno avuto risalto), ma anche dei componenti delle equipe e dei funzionari del trattamento ( destinate invece a rimanere più sommerse). Si sono avuti già casi del genere vigente il sistema dei c.d. automatismi, possiamo immaginare che si ripeteranno molto più numerosi in futuro.

Insomma prevedere una moltiplicazione delle istanze di recidivi pericolosi e mafiosi – al di fuori di un criterio selettivo di eccezionalità che funga da filtro -; mantenere inalterati gli organici degli educatori, dei magistrati di sorveglianza e dei loro ausiliari,  dettando pure tempi ristretti (sei mesi) per la trattazione delle pratiche, non sembra una buona scelta di politica penitenziaria. Tale riforma rischia infatti o di provocare una più larga concessione di benefici a soggetti pericolosi ovvero di risolversi in una mera enunciazione legislativa che potrebbe determinare ulteriori aspettative nella popolazione detenuta e conseguenti conflitti nel clima tutt’altro che sereno che accompagna la vita degli operatori penitenziari.

Potrebbe tradursi perciò nell’ennesima riforma effettuata senza ascoltare gli operatori, ma incidendo in modo pesante sulle loro condizioni di vita, oltre che professionali. E con ciò non mi riferisco solo ai magistrati, ma – come vedremo oltre – in modo particolare alla polizia penitenziaria ed ai funzionari del trattamento.

  1. C) Effetti della riforma sull’organizzazione e sul trattamento penitenziario

Il tema certamente più rilevante è rappresentato dai possibili effetti della riforma sulla organizzazione e sul trattamento penitenziario. Si tratta di un argomento vasto che cercherò di trattare da una prospettiva complessiva – di gestione delle risorse e motivazione del personale – l’unica che dovrebbe essere assunta chi manovra questi strumenti.

Nuovi oneri. Un primo problema attiene come abbiamo visto in precedenza al coordinamento tra le nuove regole penitenziarie, le attività dei trattamento e la documentazione e valutazione dei percorsi trattamentali. Come già accennato questa riforma moltiplicherà i compiti di documentazione dell’area trattamentale, sommergendo di adempimenti gli operatori, a discapito di coloro che sono realmente interessati a percorsi di reinserimento. La caduta degli automatismi creerà inoltre molte aspettative anche in detenuti che rivolgeranno istanze senza avere i requisiti di affidabilità. Ciò determinerà inevitabili pressioni e altrettanto gravi delusioni e – c’è da ritenere – non gioverà a migliorare il clima tra operatori e detenuti.

Clima interno agli istituti. Dal 2011 – sul presupposto dell’adeguamento a parametri europei – sono stati adottati una serie di interventi legislativi ed amministrativi che hanno modificato le caratteristiche della vita penitenziaria. Alcune disposizioni attengono alle concrete modalità di circolazione all’interno delle strutture ed in particolare hanno introdotto il cd regime aperto, che consente la libera circolazione dei detenuti fuori dalle camere detentive ed all’interno della sezione durante le ore diurne. Questa innovazione era stata introdotta – dopo un lungo e attento studio e con precise regole  per garantire ai detenuti non pericolosi maggiori spazi di vita interna – prevedendo che fossero i responsabili di polizia caso per caso a stabilire chi potesse essere ammesso al regime aperto. Ma poi – per scelta risalente ad alcuni governi fa – è stato aperto a tutti anche a soggetti dei quali non era stata preventivamente valutata la pericolosità. Solo recentemente è stato prevista la possibilità di riportare ad un regime chiuso i pericolosi. Tale regime tenta di emulare esperienze penitenziarie di altri paesi ( Spagna, Stati Uniti) che però hanno strutture di ben diverse caratteristiche e riservano alle determinazioni delle autorità penitenziarie la scelta dell’apertura. In base alle denunce dei sindacati di polizia nel nostro paese i casi di violenza sono sensibilmente aumentati.

Ma più in generale, sempre sulla scorta di ciò che denunciano i sindacati di polizia penitenziaria[2], e sulla base dei dati ufficiali del DAP riferiti agli eventi critici – tra gli anni 2010 e 2017 – le aggressioni agli agenti in servizio sarebbero raddoppiate in termini assoluti[3] ed altrettanto sarebbe avvenuto con riferimento alle colluttazioni tra detenuti. Inoltre sulla scorta dei dati ufficiali nello stesso periodo si sarebbe moltiplicato il numero dei reati di violenza minaccia oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale[4]. Gli stessi sindacati denunciano in realtà che i dati su questi eventi critici sarebbero ancora più allarmanti, ma noi dobbiamo fare riferimento ai dati ufficiali.

Questi numeri – che potrebbero essere neutri se non fossero accompagnati da una espressione di disagio marcato da parte degli operatori penitenziari – danno l’idea di un clima non del tutto favorevole rispetto all’opera di rieducazione che si vorrebbe realizzare. Essi non vanno semplicisticamente interpretati e ascritti a responsabilità gestionali (all’amministrazione penitenziaria va espresso anzi un ringraziamento per la trasparenza dimostrata nel fornire i dati richiesti) , ma sono la conseguenza di una azione normativa complessiva – certamente ispirata a nobilissime finalità – ma che non ha tenuto nel debito conto il fatto che le sfide per la civiltà della pena e per una autentica rieducazione vanno combattute insieme al personale che deve realizzarle.

La prima osservazione da fare è che la rieducazione non può avvenire senza un atto di fiducia verso il personale che è chiamato ad operare nelle carceri con compiti di responsabilità.   Il microclima interno agli istituti, non ci dice che lo stato di salute della rieducazione sia buono.

Fatti salvi i presupposti di una pena civile ed orientata al rispetto assoluto della persona, non possiamo ritenere giusta una compensazione tra le maggiori opportunità riservate ai detenuti e la crescita degli eventi in danno della integrità fisica e morale degli operatori penitenziari, Polizia penitenziaria e funzionari del trattamento in testa.

Un problema ulteriore attiene alla mancanza di qualunque connessione tra le opportunità previste per i detenuti attinenti ai maggiori spazi da fruire, ad intrattenimento, ad affettività, e la risposta alla proposta di rieducazione. Vi sono norme che sembrano pregiudizialmente ispirate da sfiducia verso gli operatori e dalla volontà di impedire abusi del personale ; altre che appaiono legittimare una contrapposizione “sindacale” tra detenuti ed amministrazione; altre ancora che trasformano le opportunità in diritti, sottraendoli ad ogni valutazione di meritevolezza ed alla risposta alla proposta di rieducazione. Insomma se non si bilancia il sistema, anche le disposizioni ispirate da sacrosante intenzioni di civiltà rischiano di accreditare una rieducazione autogestita, sindacalizzata, imposta agli operatori, produttiva di pretese che si scontrano con la realta’ della scarse , o inesistenti, risorse. Mentre la rieducazione pensata dal Costituente invece dovrebbe consistere in un difficile cammino, rispetto al quale non deve essere mai messa in discussione la autorevolezza e dello Stato e la dignità delle figure che esso rappresentano all’interno del sistema penitenziario. La rieducazione fa sorgere doveri ed è fonte di sacrifici, come ci si è sforzati di spiegare nelle normative interne all’amministrazione penitenziaria, ma offre una opportunità unica che è data dalla possibilità di essere riammessi nel contesto sociale. Una pena civile non prevede sofferenze gratuite, mortificazioni alla dignità personale ed alla salute dei detenuti. Ma non è espiata in maniera civile una pena neppure quando si offende la dignità e la integrità fisica degli operatori.

Per non parlare degli effetti dannosi che possono determinarsi sulla stessa popolazione detenuta. Le norme che vorrebbero modificare la sicurezza – ispirate dalla apprezzabile volontà di attenuarne possibili rigori – a volte finiscono per guardare ai detenuti come singoli e non come potenziale comunità capace di organizzarsi velocemente determinando gerarchie e di occupare ogni spazio lasciato libero dalla organizzazione penitenziaria. Non sempre l’assenza di regole di sicurezza si traduce in spazi di libertà per i detenuti; a volte può tradursi in spazi di oppressione a danno dei detenuti più deboli. Il carcere è un luogo difficile da comprendere da parte di chi vi guarda dall’esterno e per questa ragione ogni riforma va adottata tenendo conto della esperienza degli operatori e supportandone l’operato.

In un clima caratterizzato dalla crescita di questi eventi una azione gestionale politico-legislativa che si riproponga di ottenere obiettivi reali non potrà trascurare la tutela del personale, né gli effetti di disposizioni che mettono in mora l’amministrazione ovvero appaiono volti a determinare contro di essa rivendicazioni e contenziosi (come ad esempio le nuove norme sulle perquisizioni di cui si dirà più avanti). E deve altresì tenere conto del morale dei propri uomini chiamati a così difficile compito, e della delusione conseguente alla mancata approvazione delle pur prospettate riforme ordinamentali. L’Amministrazione Penitenziaria non appartiene solo al Governo, ma appartiene a tutti ed alla Democrazia della nostra nazione, poiché essa è chiamata a svolgere una funzione di Giustizia e di garanzia – di diritti individuali e collettivi – che prescinde dal conseguimento di obiettivi di parte. Per questo è bene che il Parlamento mentre tutela la civiltà della pena, al contempo vigili sul rispetto della integrità fisica e morale di coloro – Polizia penitenziaria, direttori, funzionari del trattamento e della esecuzione esterna, impiegati civili – che sono chiamati a svolgere questo delicato e rischioso ruolo nell’interesse di tutti i cittadini.

Nessuna traccia delle vittime dei reati

In questa frammentaria riforma dell’ordinamento si fa solo un piccolo cenno alla giustizia ripartiva, ma non vi e’ alcuna traccia delle vittime dei reati. A differenza di cio’ che avviene in altri paesi, le vittime non sono coinvolte nei percorsi di reinserimento e soprattutto non interloquiscono nel momento della concessione dei benefici. In definitiva, tenuto conto della caduta delle preclusioni, della abolizione del contributo conoscitivo dei procuratori della Repubblica, della assenza di qualsivoglia ruolo delle vittime nei programmi di reinserimento e di trasformazione delle pene, i percorsi di trattamento rischiano di condurre ad una definizione sempre piu’ burocratica delle istanze di beneficio. Si rischia cosi’ di innescare una dimensione virtuale della rieducazione e del reinserimento, del tutto sganciata dalla realta’, oltre che dal bilanciamento tra contrapposti valori voluto dal Costituente e dal comune sentire dei cittadini.

  1. d) regime delle perquisizioni

Quando si stabilisce un onere a carico dell’amministrazione – e lo si fa con legge – occorre chiedersi come viene ad incidere sulla vita penitenziaria. Questo accade ad esempio per le perquisizioni laddove si prevede che dell’avvenuta perquisizione è redatto verbale in cui sono descritte le modalità con cui è stata eseguita e sono indicate le ragioni che l’hanno determinata. La disposizione sembra dimenticare che il carcere è un luogo frequentato per definizione da persone pericolose, nel quale la sicurezza può essere compromessa in ogni momento dall’utilizzo di armi o strumenti atti a offendere. La bonifica mediante perquisizione deve avvenire di regola dal passaggio dei detenuti da un ambiente all’altro, specie quando nel nuovo ambiente vi siano estranei,  altri detenuti o soggetti istituzionali.  Si tratta di una operazione da compiere centinaia, se non migliaia di volte al giorno in ogni istituto. Si deve ad esempio sempre perquisire un detenuto prima che incontri un magistrato, prima che incontri i parenti, prima che incontri il direttore o la comunità esterna.  Se non fosse stato così  le centinaia di casi di aggressione che vengono registrate ogni anno sarebbero trasformate in tragedie.  In base al nuovo testo si vorrebbe  perciò costringere la polizia penitenziaria a redigere un verbale per ogni perquisizione che spesso coincide con lo spostamento dei detenuti da un ambiente all’altro. Naturalmente va rilevato che tali nuove disposizioni divengono una miscela esplosiva se legate al nuovo regime aperto delle camere detentive.

Viene il dubbio che chi abbia scritto – certamente in buona fede – questa norma non conosca molto bene l’ambiente penitenziario perché tale disposizione finirà per porre l’amministrazione penitenziaria – e quanti sono chiamati a verificarne l’operato, magistrati compresi – nell’alternativa tra una perenne irregolarità (conseguente alle omesse verbalizzazioni) ovvero il precipitare delle condizioni di sicurezza (conseguente alla omesse perquisizioni).

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Ho volutamente tralasciato ogni considerazione con riguardo alla estensione dei benefici penitenziari ai recidivi e/o delinquenti abituali, professionali e per tendenza, nonche’ alla elevazione a 4 anni della soglia per la concessione degli stessi. Si tratta infatti di disposizioni gia’ sostanzialmente previste nella delega, rispetto alle quali valgono le considerazioni gia’ espresse circa la negativa incidenza sulla effettivita’ delle sanzioni penali erogate a seguito della ingente attivita’ giudiziaria che ogni giorno viene svolta nei tribunali, che finisce cosi’ per perdere molto del suo significato.

Con riguardo alle disposizioni incidenti sulla criminalita’ mafiosa non può non rilevarsi come il decreto adotti una prospettiva del tutto avulsa dall’ottica di prevenzione e di collegamento istituzionale finalizzato al suo intelligente contrasto, che pure aveva ispirato le riforme dei primi anni 2000. Alcune disposizioni sembrano segnare la volonta’ di rinunciare alla prospettiva di una condivisione di scelte tra amministrazione penitenziaria e organi giudiziari, comportando un importante passo indietro nella collaborazione finalizzata alla azione di prevenzione nei confronti della criminalita’ mafiosa. Pure la teorica possibilita’ di estensione dello scioglimento del cumulo ai 41bis muove nella medesima direzione. Con riguardo al trattamento penitenziario ed alla proficua gestione dei risultati della rieducazione, l’ordinamento perde una ottima occasione per ridare fiducia ai propri operatori (Polizia penitenziaria, Funzionari del trattamento, direttori), di fatto continuando a codificare obblighi per l’amministrazione ai quali non corrisponde alcun adeguamento ne’ di risorse umane, ne’ di strutture ne’di fondi. Il tutto senza alcuna prospettiva di operare un riordino delle funzioni e del ruolo dei predetti operatori, ne’ garantendo loro condizioni minime di tutela sul piano personale e professionale, rispetto al difficile impegno che ad essi viene richiesto.

Sebastiano Ardita

 

[3]

Nel 2010 294 aggressioni al personale di polizia ; 1521 colluttazioni tra detenuti

Nel 2013 338 aggressioni al personale di polizia ; 1741 colluttazioni tra detenuti

Nel 2017   587 aggressioni al personale di polizia ; 3164 colluttazioni tra detenuti

Nel 2017 si sono registrate 25 aggressioni contro personale amministrativo (educatori?), dato in precedenza non rilevato

Dati forniti dal DAP, in allegato alla relazione

[4] Nel 2010   271

Nel 2015   1250

Nel 2017   2110