Chi di noi, accompagnando un proprio caro in ospedale, accetterebbe un suo ritorno a casa più malato di prima? Nessuno, seppure intellettualmente poco dotato, chiederebbe a un nosocomio di evitare di curare i malati rimandandoli indietro malridotti o in condizioni peggiori rispetto a quando sono entrati. Sarebbe una circostanza assai singolare, se non paradossale, se si facesse il tifo per la malattia e non per la cura. Quand’anche il malato se la fosse cercata – prendiamo l’esempio di un fumatore – la struttura non si sognerebbe mai di rifiutare le cure ed abbandonare il paziente a sé stesso, senza somministrare alcuna terapia. La premessa potrebbe apparire banale o lapalissiana, ma in ambito penitenziario, dove si tende ad abusare di termini come cura, recupero e simili, si riscontrano invece tendenze alquanto singolari e spesso contraddittorie.
La continua pressione di una gran parte della pubblica opinione, caratterizzata da una richiesta di sicurezza sempre crescente, ed alimentata in qualche misura anche da una certa informazione dai toni allarmistici, ha progressivamente creato le premesse per l’adozione di politiche eccessivamente securitarie le quali andrebbero riservate, invece, e ragionevolmente, solo a chi ha intrapreso una carriera criminale ad alto “allarme sociale”, come al mafioso conclamato, al terrorista fanatico, cioè al delinquente considerato, in qualche modo, dalla stessa normativa “irriducibile”, ragion per cui il primo obiettivo dello Stato e della Giustizia, nei loro riguardi, è quello di metterli in condizione di non nuocere.
La maggior parte delle persone presenti nelle patrie galere è costituita di fatto da soggetti che hanno vissuto in condizioni di marginalità, povertà ed esclusione sociale e che a causa di tali gravi carenze e di altre numerose variabili, hanno progressivamente intrapreso un percorso di natura deviante. Abbandono scolastico ed assenza di inclusione culturale hanno spesso caratterizzato l’esistenza di questi soggetti.
Il legislatore impone, agli operatori penitenziari, di “osservare” la persona detenuta nella sua unità psico-fisica, così da interpretare ed analizzare quelle carenze e quelle cause che l’hanno indotta alla commissione dei reati che sono stati di pregiudizio al suo adattamento sociale.
Autorevoli studiosi di pedagogia penitenziaria si spingono persino ad affermare che il carcere dovrebbe in qualche modo risarcire, sul piano educativo, ciò che al soggetto svantaggiato è venuto a mancare nell’arco della sua lunga o breve esistenza ed essere capace di offrire modelli di riferimento positivi ed in netto contrasto con quelli che ne hanno condizionato ed orientato in senso deviante i comportamenti sin dalla delicata fase dell’età evolutiva.
Si parla infatti al riguardo di diritto al risarcimento educativo atto a compensare le azioni educative avverse.
E’ chiaro che la società e le politiche sociali non possono chiamarsi fuori, né prima, cioè a dire nella fase in cui gli indirizzi programmatici di prevenzione del disagio sociale dovrebbero intervenire efficacemente, né dopo, ovvero quando occorre porre un rimedio a ciò che non si è stati in grado di fare per prevenire gli effetti dell’esclusione sociale e della stigmatizzazione del disagio- Il carcere è dentro le nostre città. Le sbarre e le mura che ci separano da quel luogo e dalle persone che vi sono ristrette, dovrebbero essere considerate semplici “perimetri strutturali” e non alimentare quel retaggio culturale, ed egoistico, che tende a considerare tale realtà “altro da sé” e che in quanto tale non ci appartiene.
L’obiettivo di una democrazia compiuta dovrebbe essere quello di realizzare quanto previsto dalla Costituzione, all’art. 3 – II comma – che stabilisce: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Intendiamoci tanto si osserva nel pieno rispetto del principio della certezza della pena, la cui sacralità impone che ad un reato corrisponda la necessaria e relativa sanzione.
Ma la chiave va conservata, custodita, non buttata come da molti invocato ed auspicato. La persona – riprendendo l’analogia dell’ospedale, non può aggravarsi o cronicizzarsi- va “curata” durante il periodo di espiazione della pena e dev’essere messa in condizione di cambiare vita, di capire il proprio sbaglio, di ripensare al proprio passato, di meditare sul male causato a sé stesso e ad altri, ed a volte – nella concezione più avanzata dell’espiazione della pena – di incontrare le vittime dei propri atti in un articolato e complesso, quanto fruttuoso, percorso di mediazione.
Per far ciò è necessaria la presenza di un’autentica e non strumentale disponibilità del soggetto in carcere ad usufruire degli interventi del trattamento. Diversamente si tradirebbe lo spirito e la lettera delle norme penitenziarie, correndo il rischio, addirittura, di sottrarre preziose risorse istituzionali da destinare ai soggetti davvero meritevoli.
Tale oculato accertamento si realizza nel corso dell’opera degli addetti ai lavori, finalizzata a favorire la collaborazione dei ristretti al trattamento risocializzante.
Questa è la funzione del carcere e dell’educatore penitenziario che, dal 2010, è stato ribattezzato funzionario giuridico-pedagogico. Una figura professionale che oggi vive, più che nel passato, la discrepanza marcata tra una centralità che nel sistema penitenziario le viene assicurata per previsione normativa ed il mancato riconoscimento di un trattamento giuridico ed economico adeguato connesso all’’assenza di visibilità esterna. Una condizione di oblio quest’ultima, che non permette di evidenziare all’esterno quello che è il mandato normativo che viene affidato al Funzionario giuridico – pedagogico: rilevare le carenze della persona e sostenere la stessa in un percorso di revisione critica che stimoli in lui il bisogno di cambiamento, l’esigenza di vivere in modo socialmente accettabile.
Dunque restituire persone migliori alla società libera è il compito di chi, per economia lessicale, viene correntemente chiamato FGP.
Una figura introdotta nel 1975, anno del varo dell’Ordinamento Penitenziario. Il FGP, nell’arco della durata della pena detentiva, deve conoscere le persone che entrano in carcere, prendere le misure del loro disagio, creare le condizioni affinché siano individuate le lacune che hanno accumulato nel loro percorso di vita precedente, favorire i rapporti con la famiglia, migliorare la loro condizione culturale, professionale, lavorativa, sensibilizzarle in merito alle sofferenze causate agli altri, ripristinare– ed a volte acquisire ex novo – una scala di valori, ascoltarli e supportarli soprattutto nei momenti di sconforto.
Va soggiunto che il FGP è il perno centrale dell’équipedi operatori penitenziari che illustra alla Magistratura di Sorveglianza gli esiti del percorso trattamentale effettuato dal soggetto ai fini della valutazione, da parte della stessa, della concessione dei vari benefici penitenziari e, quindi, dell’eventuale restituzione anticipata dei ristretti nella società.
Trattasi ovviamente di un compito che implica, oltre a significativi rischi personali, una grande responsabilità sociale.
È quindi un mandato ad alto rischio di fallimento. Perché gli aspetti or ora elencati non sono pochi, né facili. Serve tempo – che in carcere non manca – ma necessitano anche spazi, risorse, pazienza, coraggio, capacità di mediazione e di coordinamento, progettualità e studio.
Eppure chi fa questo lavoro, totalmente diverso dal tradizionale dipendente civile dello Stato, è giocoforza portatore sano di passione. E’ un ruolo che è stato rimodulato e plasmato da coloro che lo hanno svolto e interpretato negli anni, esaltandone la valenza giuridica e pedagogica ed evidenziandone le criticità. Chi fa questo mestiere è consapevole di rappresentare, insieme alla Polizia penitenziaria, il front office del carcere.
Il Funzionario Giuridico Pedagogico, al pari delle forze di polizia, esercita una tutela della sicurezza. In maniera indiretta, infatti, opera per garantire il miglioramento della società restituendole soggetti in grado di vivere senza più delinquere. Anche questa è sicurezza e prevenzione del crimine. Il prodotto di tanto lavoro è senza alcun dubbio prezioso per la tenuta del patto sociale.
E allora, forse, è meglio non buttarla via, ‘sta chiave…’ perché prima o poi il soggetto attenzionato dovrà uscire, camminare con gambe proprie, vivere di lavoro onesto, riappropriarsi della propria esistenza, senza cedere mai più alla tentazione di contrapporsi nuovamente ad una società che non gli ha dato le stesse possibilità di partenza di molti altri.
Questo è il lavoro del Funzionario Giuridico Pedagogico, sic et simpliciter. Un compito purtroppo piuttosto sconosciuto a tanti, quanto prezioso, ed anche gravoso e foriero di rischio, perché il percorso della riabilitazione del recluso è irto di ostacoli. Ma è una sfida tutta da vivere che consente di mettersi professionalmente in gioco affinché l’eventuale sconfitta odierna possa rappresentare un valore esperienziale aggiunto o il trampolino di lancio per la vittoriadi domani.
IL PRESIDENTE A.N.F.T.
Dr. Stefano Graffagnino